“qui, dentro, lì, fuori”
January 22nd, 2015
Le persone e le cose sempre al centro della sua attenzione: questo è insieme il primo ricordo e l’eredità più importante del lavoro di Filippo Alison che ci ha lasciato proprio oggi.
Le persone viste nel loro essere individualità singole o collettività, in relazione ai contesti, e le cose intese come manufatti in cui si manifesta la cultura – non solo materiale – di ogni paese. La disciplina degli interni con il compito di creare relazioni a partire da questi due paradigmi, senza dimenticare l’ambiente nel quale le azioni si svolgono, introducendo il terzo termine di una singolare teoria che non ha mai trovato una vera e propria formulazione.
Questa l’eredità di un uomo che ha trascorso tutta la sua vita cercando di guardare da vicino le cose e le persone, quelle che le cose le usano ma anche quelle che le cose le realizzano.
Ci sono voluti più di vent’anni perché quello che sembrava un mantra incomprensibile (“qui, dentro, lì, fuori”) divenisse il punto iniziale di una riflessione sulla disciplina e il nodo di un capovolgimento di valori in grado di produrre nuovi sensi. In grado di trasformare il tradizionale carattere tipologico e funzionale degli Interni in un metodo processuale ed esperienziale, rompendo lo statuto monologico della disciplina e aprendo gli argini ad una dimensione per certi versi infinita del fare.
Mite, acuto, gentile ma estremamente determinato, Filippo Alison ha trascorso più di metà della sua vita nella Facoltà di Architettura di Napoli dove è stato maestro indiscusso di migliaia di studenti che sceglievano di frequentare il suo corso di Arredamento. Una materia un pò obsoleta già negli anni Ottanta, quando anch’io – come tanti altri – per tentare di costruire un argine alla deriva del progetto urbano, tanto astratto quanto ideologico, scelsi di frequentare il corso. Un incontro fatale che accese una passione per il mondo degli interni e dell’oggetto d’uso quotidiano ancora ardente oggi.
Ricordo ancora il mio primo giorno di lavoro presso il suo garage-studio, stracolmo di oggetti e di documenti e spalancato sul golfo di Napoli con il Vesuvio giusto di fronte, la montagna fumante (fino all’ultima eruzione del ’45) alle cui pendici era cresciuto scugnizzo negli anni epici della ricostruzione. Dopo avermi illustrato compiti e mansioni, in procinto di andarsene, sull’uscio di quella immensa porta-finestra che era il fronte verso il mare dello studio, mi salutò con la semplicità cordiale e austera che gli era tipica. Io allungai la mano per stringergliela e lui titubò un attimo, ma poi la strinse dicendo “stringersi la mano è un segno importante, non lo faccio con tutti”. Fu una stretta lunga e dolce, tenera e ferma, con la sua mano grande elegante dalle dita lunghe e affusolate che avvolgeva la mia. Un tempo lungo quanto poi la nostra collaborazione e amicizia che mi introdusse per sempre al mondo degli Interni attraverso lunghe giornate silenziose in studio e altrettante lunghe conversazioni nella piccola Fiat Cinquecento, durante i viaggi che ci portavano dallo studio alla scuola o dalla casa al mare in studio. Alto grande e dalle spalle larghe, riempiva tutta l’auto che sembrava impossibile qualcun altro potesse stare dentro con lui. Serpeggiavamo tra i tortuosi tornanti della costiera Amalfitana all’albeggiare, godendo della bellezza cangiante del panorama sotto i raggi del primo sole e dei profumi che la brina mattutina fa rilasciare alla rigogliosa macchia mediterranea. Una poesia per i sensi che mi insegnava con pazienza a esercitare.
Si parlava, anzi lui raccontava e io ascoltavo curioso e silenzioso, sognando che il viaggio non arrivasse mai a termine, che quella dimensione spazio-temporale-emotiva non avesse mai fine. E fu proprio durante le passeggiate mattutine che un giorno, cercando di farmi capire il senso profondo e rivoluzionario della disciplina come lui solo la intendeva, mi disse: “qui, dentro, lì, fuori”. Parole che non capii subito, ma neppure dopo. E che misi a dormire per lunghi anni, fin quando solo di recente ho iniziato a riconoscerne tracce all’interno della attività didattica che svolgo al Politecnico di Milano. Parole che hanno guidato la mia formazione e la mia maturazione professionale e di ricerca a mia stessa insaputa. Parole rinvenute attraverso un lavoro archeologico su me stesso, sul mio lavoro dentro la scuola, sulla mia attività di ricerca, alla ricerca di senso del mio fare. Tutto, pensieri riflessioni progetti ricerca attività didattica mi sono apparsi frutto diretto di questa piccola locuzione ascoltata sul finire degli anni Ottanta, tra un tornante e l’altro della costiera prima di fermarci a respirare l’area frizzante e iodata del lungomare partenopeo.
“qui, dentro, lì, fuori” è diventato così in questi anni uno slogan per contestualizzare concettualmente il mio operare e insieme per dichiarare la mia provenienza intellettuale, per pagare un debito di riconoscenza chiaramente incolmabile, come è giusto che sia il rapporto tra un maestro e un proprio allievo.
Perché questo è stato Filippo Alison per me, e questo ho sempre sentito di essere stato fino all’ultimo io per lui. Ora che non c’è più, toccherà farsi carico di quell’enorme eredità intellettuale e morale che ha lasciato a me come a tutti i suoi suoi allievi sparsi e dispersi tra le vie del mondo, dentro e fuori l’accademia. Un’eredità da condividere e da trasmettere ogni giorno, con gioia ed entusiasmo, come lui ci ha delicatamente insegnato.
Grazie Filippo.